Ciao a tutti , pensavo di rilanciare al gruppo LAND una specie di gioco che hanno fatto l’altro giorno a Farheneit, in onda su Radio Tre . La domanda era più o meno questa : quale è secondo voi il poeta ( ma noi potremmo dire in generale lo scrittore ) che meglio ha comunicato, ha reso , ha interpretato con le parole il paesaggio ( o i paesaggi ) che lo circondava ? Se proprio vogliamo rendere la sfida più impegnativa , possiamo concentrare la ricerca sulla nostra realtà , la nostra provincia , la nostra regione.
Buona caccia a tutti !!
Buongiorno ..ed ecco il mio poeta a km,0 ..o quasi .E' di Sassuolo
e si chiama Francesco Genitoni.
Francesco Genitoni, nato a Cola di Vetto nell’Appennino Reggiano nel 1951, dal 1961 risiede a Sassuolo . E' giornalista,storico, poeta e scrittore di saggi storici e libri per ragazzi.
Il libro di poesie di Francesco Genitoni porta il titolo di ARCHIVI e PAESAGGI (Book Editore 2020). Con la parola archivi possiamo cogliere un luogo della memoria, una raccolta di documenti non sempre per il nostro sentire così ospitale, uno spazio racchiuso contenete riserve impensate di realtà e di immaginazione.
Con il termine archivi si riflette nella sua poesia una dimensione poetica come principio determinante di una situazione personale documentata. La natura in Genitoni è un luogo-deposito familiare..La forma poetica di Geniton può essere imperfetta, e come suo antecedente nello stile, nel passo ritmico dei versi, c’è la poesia di Attilio Bertolucci poeta parmense (padre di Bernardo Bertolucci)
MATTINA DI DICEMBRE
In questa prima mattina di dicembre
in una nebbia diradata che appanna
a bolle argentee e dà nuovo spessore a
monti colline prati boschi ai sassi
ai bassi giri d’acqua del torrente
a querce d’ottone arrampicate d’edera
case isolate e borghi a case vuote
e nulla toglie anzi dà dona luce
che ti svela squarci mai notati
in un silenzio stupito d’ogni cosa
andare
immerso corpo occhi cuore
assorbire bere diventare
ogni monte collina pianta prato
bosco strada casa isolata borghi
finestre chiuse e via via risfogliare
rispolverare uomini donne e loro
bestie paesi campi e rive metati
case borgate gonfie di persone e
andare
lento e svelto a ritrovare parole
storie lavoro i minimi frammenti
scritti con nebbia narrati da silenzi e
andare
col sole a raggi larghi or ora apparso
filtrato tra le bolle della nebbia
a tranquilla eccitata mente andare
ricercare
in naturali pazienti infrequentati
ma non per questo meno vivi e vivaci
archivi.
Una bella scoperta quella di Grazia e per di più un autore locale ( vale doppio ). Un ritmo ora intenso e serrato ora rarefatto e leggero che asseconda perfettamente il nostro modo di percepire i diversi livelli visivi di un paesaggio di nebbia.
Per parte mia suggerisco le pagine iniziali di un romanzo che sto leggendo in questi giorni . “La Chimera “ di Sebastiano Vassalli (Einaudi 1990 e BUR 2014). Vi si ritrova una straordinaria padronanza stilistica ed una altrettanto straordinaria capacità di rappresentare il paesaggio come sintesi inscindibile di fattori umani e naturali , come un insieme di influenze capaci di determinare il carattere ed il modo di vivere dei singoli e del gruppo.
Premessa
Il nulla
Dalle finestre di questa casa si vede il nulla. Soprattutto d’inverno: le montagne scompaiono, il cielo e la pianura diventano un tutto indistinto, l’autostrada non c’è più, non c’è più niente. Nelle mattine d’estate, e nelle sere d’autunno, il nulla invece è una pianura, vaporante, con qualche albero qua e là e un’autostrada che affiora dalla nebbia per scavalcare altre due’ strade, due volte: laggiù, su quei cavalcavia, si muovono piccole automobili, e camion non più grandi dei modellini esposti nelle vetrine dei negozi di giocattoli. Capita anche di tanto in tanto -
diciamo venti, trenta volte in un anno - che il nulla si trasformi in un paesaggio nitidissimo, in una cartolina dai colori scintillanti; ciò si verifica soprattutto in primavera, quando il cielo è blu come l’acqua delle risaie in cui si rispecchia, l’autostrada è così vicina che sembra di poterla toccare e le Alpi cariche di neve stanno là, in un certo nodo che ti si allarga il cuore solamente a guardarle. Si vede allora un orizzonte molto vasto, di decine e di centinaia di chilometri; con le città e i villaggi e le opere dell’uomo inerpicate sui fianchi delle montagne, e i fiumi che incominciano là dove finiscono le nevi, e le strade, e lo scintillio di impercettibili automobili su quelle strade: un crocevia di vite, di storie, di destini, di sogni; un palcoscenico grande come un’intera regione, sopra cui si rappresentano, da sempre, le vicende e le gesta dei viventi in questa parte di mondo. Un’illusione…
Davanti a queste finestre, e a questo nulla, mi è accaduto spesso di pensare a Zardino: che fu un villaggio come quegli altri che si vedono laggiù, un po’ a sinistra e un po’ oltre il secondo cavalcavia; sotto la montagna più grande e più imponente di questa parte d’Europa, il Monte Rosa. Nelle giornate cartolina, il paesaggio di questi luoghi è dominato ed è anche fortemente caratterizzato dalla presenza di quella montagna di granito e di ghiaccio che s’innalza sui picchi circostanti quanto quelli sulla pianura: un «macigno bianco» - così lo descrisse all’inizio del secolo il mio babbo matto, il poeta Dino Campana - attorno a cui «corrono le vette a destra a sinistra all’infinito come negli occhi del prigioniero». Campana era arrivato a Novara una sera di settembre, in treno, senza vedere niente perché fuori era già buio e la mattina del giorno successivo, attraverso le inferriate di un carcere, gli era apparso il Monte Rosa in un «cielo pieno di picchi I bianchi che corrono»: un’immagine inafferrabile e lontana come quell’amore che lui allora stava inseguendo e che non avrebbe mai raggiunto, perché non esisteva… Una chimera!
Da lassù, dalla sommità della chimera, per un percorso tortuoso e in più punti scavato nella roccia viva, discende a valle il fiume Sesia, che nel linguaggio delle popolazioni locali ha un dolce suono femminile: la Sesia, ed è il più bizzarro e imprevedibile tra tutti i fiumi che nascono dalle Alpi ed anche il più subdolo, il più rovinoso per gli uomini e le cose lungo il suo percorso. Ancora oggi, le sue piene improvvise arrivano in pianura con onde d’acqua fangosa alte alcuni metri: e chissà quanti danni produrrebbero se il lavorio degli uomini, secolo dopo secolo, non avesse imposto al fiume due lunghissime briglie di terrapieno e ciottoli e in qualche tratto di cemento, che lo frenano e lo accompagnano fino alla confluenza nel Po.
Nei secoli scorsi, invece, ogni pochi anni capitava che il Sesia straripasse, cambiando corso; qua spostandosi di cento metri, là d’un miglio; creando stagni e paludi dove prima c’erano terreni coltivati, cancellando dalle mappe interi feudi e villaggi e addirittura modificando i confini tra gli Stati: che in questa pane d’Italia, all’inizio del Seicento, erano a occidente il Ducato di Savoia, un’appendice
meridionale della Francia, e a oriente il Ducato di Milano, soggetto allora al Re di Spagna. È così, forse, che, è scomparso Zardino. Circa la metà del Seicento o poco prima, dicono gli storici: un villaggio d’una trentina di fuochi portato via da un’alluvione del Sesia con i suoi abitanti, e mai più ricostruito; ma la faccenda è tutt’altro che cena. Altre cause possibili della sparizione del paese - il cui nome, nei documenti medievali, risulta spesso ingentilito in «Giardino» - potrebbero essere la peste del 1630, che spopolò decine di villaggi in tutta la pianura del Po; o una battaglia; o un incendio; o chissà che altro.
!n questo paesaggio che ho cercato di descrivere e che oggi - come spesso capita - è nebbioso, c’è sepolta una storia: una grande storia, d’una ragazza che visse tra il 1590 e il 1610 e che si chiamò Antonia, e delle persone che furono vive insieme a lei, negli anni stessi in cui lei fu viva, e che lei conobbe; di quell’epoca e di questi luoghi. Già da tempo mi proponevo di riportare quella storia alla luce, raccontandola, tirandola fuori dal nulla come il sole d’aprile fa venire fuori la cartolina della pianura e il Monte Rosa, e avevo anche pensato di raccontare questi luoghi, e il mondo dove Antonia era vissuta: ma poi sempre mi dissuadevano la distanza di quel mondo dal nostro, e l’oblio che l’avvolge.